Testimonianza per il 40° anniversario dell’uccisione di Roberto Franceschi – 23 gennaio 2013
Conclusa l’esperienza del liceo in una piccola città di provincia, l’arrivo in Bocconi fu innanzi tutto l’impatto con la grande metropoli, ma, al contempo, fu la messa in discussione delle mie convinzioni personali: cresciuto con i manifesti del Che e del sub-comandante Marcos alle parenti della camera, dopo gli anni dei collettivi studenteschi è inutile negare che, nonostante la vecchia scusa del “conoscere il nemico per meglio combatterlo”, una parte di me guardava all’altra come ad un “nemico” disposto ad apprendere e, magari anche, a subire il fascino delle “ferree regole dell’accumulazione capitalista”.
Allora non conoscevo ancora bene la storia di Roberto Franceschi; mi ero però imbattuto, pochi mesi dopo l’inizio dei corsi, nell’annuncio della serata del 23 gennaio sulle pagine del giornalino universitario. Avevo così scoperto l’impegno tenace della Fondazione e la storia di quel monumento, di fronte all’ingresso dell’università, che parla della «lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato».
La figura di Roberto divenne però ai miei occhi innanzi tutto la prova concreta che, anche in Bocconi, un pensiero ed una strada alternativi erano stati e, dunque, non potevano che continuare ad essere possibili. In questo senso, proprio qui in università ed insieme ad amici con cui resto ancora oggi in contatto, abbiamo immaginato il progetto cultural-politico del gruppo Lilliput, che considero una delle esperienze più significative e ricche degli anni della mia formazione.
Il premio di laurea è stato un momento decisivo di questo percorso, che, allo stesso tempo, mi ha offerto l’opportunità di una nuova partenza. La comunicazione della notizia mi raggiunse a Parigi, dove mi ero da poco trasferito per iniziare la nuova “avventura” di un dottorato di ricerca.
Ricordo che, consegnandomi il premio per il mio lavoro sull’agricoltura familiare in Senegal, Lydia Franceschi mi incoraggiò a non mettere da parte l’interesse per queste tematiche: le sue parole mi colpirono molto, perché in quel periodo stavo ridefinendo l’oggetto delle mie ricerche. Oggi l’Africa ha temporaneamente lasciato lo spazio ai contadini italiani e francesi, ma spero di non essere venuto meno a quell’impegno, ponendo sempre al centro dei miei studi l’attenzione a quel «mondo dei vinti» in cui, per citare Danilo Dolci, gli uomini «non sono prodotti stereotipi in serie. Hanno dentro da scoprire una vita originale spesso grande, quasi sempre inespressa».
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