L’intervento del prof. Ambrosini è stato pubblicato il 29 maggio su Avvenire
Dopo molto travaglio ed estenuanti discussioni, una misura di emersione a favore degli immigrati privi di uno status legale ha trovato posto nel decreto rilancio. Le lacrime della ministra Belladonna, sua principale promotrice, hanno suggellato un risultato fino all’ultimo in bilico. Strappare un provvedimento del genere a un parlamento largamente ostile a ogni apertura a favore degli immigrati era forse insperabile.
Certo, la logica della norma è piuttosto obliqua. Dove non è arrivata la tutela dei diritti umani, sono arrivati gli ortaggi da raccogliere nei campi. Dove non ha fatto breccia la protezione dal contagio di persone prive di accesso ai servizi, con conseguenza anche per la nostra salute, è passata una stentata accoglienza delle braccia necessarie a certi settori. Dove si poteva approfittare dell’occasione per risanare i guasti dei decreti sicurezza, e insieme di un mercato nero del lavoro senza garanzie, si è preferito discriminare tra un’occupazione e l’altra, tra uno sfruttamento e l’altro.
Di fatto, il provvedimento ricalca le orme delle politiche migratorie all’italiana, in cui lo strumento principe di governo degli ingressi sono da molti anni le sanatorie a posteriori: con questa sono otto le principali dal 1986 a oggi, senza contare decreti-flussi e altre misure minori. La politica di regolazione dell’immigrazione segue il mercato: una volta che i datori di lavoro, famiglie comprese, hanno deciso di assumere dei lavoratori stranieri, governo e parlamento glielo concedono, sia pure dopo polemiche e contorsioni. In negativo questa volta entra in ballo la discriminazione settoriale: saranno salvati i lavoratori di agricoltura, zootecnia, pesca, servizi domestici e assistenziali presso le famiglie. Era già successo d’altronde qualcosa del genere col decreto Maroni del 2009, riservato a colf e assistenti familiari, dette badanti. Porte chiuse per gli altri. Lavorare in un cantiere edile, in un ristorante o in un’impresa di pulizia non comporta possibilità di emersione.
A lenire il danno compare la possibilità di assunzione futura: se l’attuale manovale o l’addetta alle pulizie, o anche il disoccupato, troveranno ora un datore di lavoro dei settori “giusti”, potranno essere regolarizzati. Poi tra qualche mese, grazie alla possibilità di conversione del contratto, avranno eventualmente la possibilità di transitare verso altre occupazioni.
Non è difficile prevedere le conseguenze, già d’altronde riscontrate nelle precedenti sanatorie: si farà avanti una schiera di datori di lavoro di comodo, pronti a offrire contratti di assunzione fittizi dietro compenso. Gli immigrati, per i quali l’emersione alla legalità è un bisogno assoluto, rischiano di cadere in un’altra forma di sfruttamento.
Il provvedimento rimane quindi lontano dalle aspettative dei promotori. Ma era difficile aspettarsi di più da chi poco più di un anno fa votava i decreti di Salvini e perseguitava le ONG che salvavano le persone in mare. C’è voluto lo choc della pandemia per provocare almeno un parziale ripensamento. Bisognerà quindi mobilitarsi per mettere a frutto la mezza vittoria ottenuta. Appoggiare gli immigrati che chiederanno ai datori di lavoro di essere regolarizzati. Aiutare entrambe le parti a produrre la documentazione necessaria, indirizzandole agli sportelli sindacali o di organizzazioni riconosciute e affidabili. Sensibilizzare altri datori di lavoro alla possibilità di favorire l’emersione di persone che comunque sono qui e ci rimarranno. Estendere la conoscenza delle opportunità dell’emersione. Contrastare la compravendita di falsi contratti. Sostenere le campagne per un lavoro agricolo decente e regolare, ma adottare la stessa logica anche nelle famiglie. La tenace aspirazione alla giustizia e alla solidarietà verso gli immigrati ha ora l’opportunità di passare attraverso gesti concreti, e alla portata di tutti.
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