Narrare il lavoro è di per sé una delle sfide più difficili perché gli agguati si amplificano e possono diventare trappole. Con la scelta del titolo ho voluto chiarire, prima di tutto a me stessa, il rischio del film a tesi: Triangle è sì il nome della fabbrica tessile che prese fuoco nel 1911 a New York causando la morte di 146 persone, per lo più giovanissime immigrate in cerca di futuro, ma è anche una figura geometrica, cioè, di per sé, qualcosa di dimostrabile attraverso l’esattezza del procedere. Un film, al contrario, è quanto di più lontano dall’esser dimostrabile e, a parer mio, deve essere tutt’altro che dimostrativo. Amo le narrazioni che procedono disvelando l’invisibile che c’è dietro ciò che appare; amo costruire le storie sull’esperienza, nella continua evoluzione di un inizio destinato a trasformarsi. Ecco perché l’intuizione di poter accostare questi due eventi così lontani nel tempo e nello spazio era, di per sé, rischiosissima. Un’intuizione non è certo un postulato né un teorema, ma sempre l’inizio di un viaggio.
Facendo i sopralluoghi a Barletta ho trovato una città schiacciata dal lutto per il crollo di una palazzina abbattuta da ruspe che avevano ignorato il prezzo che sarebbe stato pagato in termini di vite umane. Lì ho capito che la chiave visiva del film sarebbe stata la relazione tra la magnificenza di New York dei primi del novecento e il depauperamento del paesaggio urbano che ha superato la post-modernità per essere semplicemente vuoto, rovine. È l’implosione di una civiltà fondata su quel mito della forza che nel novecento si chiamava oppressione sociale.
La filiera si è frammentata e al posto del conflitto di classe, ci sono tanti esseri umani non conflittuali la cui condizione esistenziale e materiale è di chi non ha alcun diritto né alcuna percezione di avere diritti. Eppure la condizione operaia è la stessa di quando c’era la fabbrica, anche nel rapporto con la macchina. Questo ce lo insegna Mariella Fasanella, l’unica lavoratrice estratta viva dalle macerie del crollo della palazzina di Barletta.
Quando l’ho incontrata per la prima volta ho sentito che c’era in lei qualcosa che andava al di là della sua forza d’animo: era come quella divinità che arriva da un altro mondo e si fa veicolo di verità, ma non quelle verità certificabili, qualcosa piuttosto che ha a che vedere con l’essere umano al cospetto della sventura del mondo; perché la sua sventura è privata e pubblica allo stesso tempo, dolore fisico che colpisce fino in fondo all’anima e decadenza sociale.
Questo mi ha fatto scegliere una struttura narrativa mutuata dal teatro classico: l’eroina porta avanti il racconto, ma senza la voce della comunità non ci sarebbe ragionamento, né elaborazione.
La pluralità dei punti di vista nasce dalla spartizione del dolore tra chi ha perso una sorella, un familiare, o semplicemente ha vissuto quel giorno a Barletta oppure a New York, provando un’esperienza impressa in modo indelebile nei cromosomi della città.
Come nella tragedia, il prologo consuma il fatto che accende la sventura: la nascita della fabbrica, l’industrializzazione, l’incendio della Triangle.
Così è nato sotto i miei occhi quel triangolo invisibile che collega i poli della nostra storia. Il lato ascendente inizia il 25 marzo 1911 a New York e prosegue per il taylorismo, il fordismo, le lotte e le conquiste del novecento; quello discendente inizia il 3 ottobre 2011 a Barletta, il giorno in cui a crollare non è solo una palazzina, ma una intera civiltà. Qui post-globalizzazione è sinonimo delle rovine sotto cui hanno perso la vita tanti nuovi schiavi. Il terzo lato è lo spazio vuoto: ciò che non appare ma è reso visibile da quell’esperienza puramente espressiva che solo il cinema può dare.
L’elemento figurativo è dato dal fotogramma anamorfico che mi ha consentito di usare per intero le immagini d’archivio, valorizzandone la verticalità e moltiplicandone gli elementi lungo il formato orizzontale: rifacendomi agli esordi del cinema, ho unito lo sguardo dei primi cineasti sulla nascente industria e le nascenti città a un’immagine consunta in cui i freddi colori dei neon delle fabbriche sostituiscono la meraviglia del bianco e nero. Questa è stata anche la chiave del lavoro di Teho Teardo sulle musiche, nell’alternanza dei pieni e dei vuoti.
Le operaie tessili morte a New York nel 1911 avevano riposto nella fabbrica le speranze di un buon avvenire, dopo aver attraversato l’oceano con quel carico di aspettative e di sogni propri di ogni migrante. Giovanissime, il loro non era solo un viaggio verso la nuova terra che prometteva risorse e accoglienza, ma anche quell’imprescindibile viaggio dentro la propria esistenza e la costruzione del sé nel quale scoprire le tappe fondamentali della vita. Le donne di Barletta erano figlie, sorelle, madri; una di loro, molto giovane, stava per diventare nonna. Alcune avevano cominciato a lavorare bambine e sono morte senza aver mai visto un contratto di lavoro né un posto decente dove fare in pace ciò che avevano imparato a far bene. Eppure i ricordi che mi sono stati affidati appartengono a chi cerca di far vincere la voglia di vivere e il coraggio di alzarsi la mattina con il desiderio di andare a lavorare.
Lo stesso coraggio di Mariella nell’affrontare ciò che è successo a lei e alle sue amiche.
‘Perché proprio io?’, si chiede. Non c’è colpa nell’esser viva ma anelito di bellezza e purezza di sentimenti. Si può ricominciare da una canzone d’amore, se questa è di conforto in mezzo a tanto male; e non c’è triangolo o teorema o congettura che tenga, il sorriso di Mariella è l’unico antidoto possibile ed è per questo che ancora la ringrazio.
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