Reddito minimo, l’anomalia italiana nel quadro europeo – Rosangela Lodigiani (Università Cattolica)

Quella che in Europa è considerata una delle più rilevanti misure in materia di contrasto alla povertà e lotta all’esclusione e alle disuguaglianze sociali. il reddito minimo, in Italia manca o meglio è presente solo in alcuni contesti locali

Traccia della relazione

Questo contributo ha l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quella in Europa è considerata una delle più rilevanti misure in materia di contrasto alla povertà e lotta all’esclusione e alle disuguaglianze sociali: il reddito minimo. Tre sono in particolare le questioni che saranno affrontate:

I.    definire questa misura nei suoi tratti essenziali (a dispetto di una convergenza sui principi cardine, gli schemi di attuazione in Europa sono tra loro differenti);

II.    capire come mai in Italia una misura di questo tipo ancora manchi, o meglio sia presente solo in alcuni contesti locali; anche se proprio in questi giorni il tema sembra tornato alla ribalta;

III.    presentare le caratteristiche di uno schema di reddito minimo, denominato Reddito di Autonomia, proposto dalla delegazione delle Caritas lombarde alla Regione Lombardia (alla cui estensione ho contribuito), che ha alcuni elementi di originalità e interesse sui quali vale la pena di soffermarsi.

I. Premessa: natura e finalità degli schemi di reddito minimo in Europa

Nel corso dell’Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, l’Unione europea ha ribadito con forza il suo favore nei confronti del reddito minimo tramite una Risoluzione del Parlamento interamente dedicata ad esso. Nel testo si indica che esso assolve almeno due funzioni.

1) Il reddito minimo è in primo luogo “uno strumento cruciale per la lotta alla povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa, sostenendo l’integrazione sociale e l’accesso al mercato del lavoro, consentendo alle persone di condurre una vita dignitosa”.

La Risoluzione si richiama in questo esplicitamente a due importanti Raccomandazioni (92/441/CEE e 92/442/CEE) che già nel 1992 avevano riconosciuto il DIRITTO fondamentale della persona a ricevere i sostegni necessari per “vivere conformemente alla dignità umana” -> modello valoriale e sociale.

2) Inoltre la Risoluzione chiarisce che il reddito minimo non solo “svolge un ruolo rilevante nella ridistribuzione della ricchezza e nel garantire la solidarietà e la giustizia sociale”, ma gioca altresì “un ruolo di carattere anticiclico, soprattutto in tempi di crisi”…. Mette così un punto fermo utile al dibattito italiano, che considerandola solo un costo, spesso si ferma prima ancora di entrare nel merito, sostenendo che non vi sono le risorse per finanziarla, a maggior ragione in questa fase congiunturale  ->la prospettiva da cui guardarla, qui si dice, è quella dello sviluppo: di un modello di sviluppo inclusivo al cui centro c’è il valore della dignità della persona.

Un adeguato livello di reddito minimo è considerato il primo pilastro della strategia europea per l’inclusione attiva, assieme alla presenza di mercati del lavoro inclusivi e all’accesso a servizi di qualità. Ci sarebbe invero da discutere molto nel merito di questa strategia. Della rilevanza attribuita al lavoro, o meglio all’occupazione (specie in questa fase di crisi) e del modo in cui si può misurare la qualità dei servizi. Basti ricordare che ancora una volta traspare un modello sociale di sviluppo ben chiaro, che vede nell’attivazione sul mercato del lavoro la più importante leva di inclusione sociale e benessere individuale e collettivo.

Restando al nostro tema, cominciamo con il dire gli schemi di rm in Europa sono accomunati da alcune caratteristiche di base:

-Universalismo selettivo -> sono rivolti a tutti coloro che sono in condizione di bisogno, previa prova dei mezzi

-non contributivo -> non legato al lavoro e ai contributi versati, a valere sulla fiscalità generale

– non c’è consenso su quanto debba valere economicamente, secondo la Risoluzione almeno il 60% della mediana del reddito del paese a cui si riferisce.

Schemi di reddito minimo sono presenti in tutta l’Europa a 27, tranne che in Italia e in Grecia. Sino al 2009 nel gruppetto dei paesi “inadempienti” risultava anche l’Ungheria che ha in parte colmato questa lacuna introducendo una misura nazionale, ma categoriale (rivolta alle persone in età attiva) che può essere per molti aspetti assimilata a uno schema di rm.

Le misure presenti in Europa possono essere classificate raggruppate in tre magro gruppi:

  • Universalistico, ad ampia copertura : Austria, Belgio, Cipro, Danimarca, Germania, Finlandia, Paesi Bassi, Portogallo, Rep. Ceca, Romania, Slovenia, Svezia
  • Generalmente universalistico, ma residuale e a volte discrezionale : Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia,  Ungheria
  • Parte di un sistema integrato di misure categoriali : Francia, Irlanda, Malta,  Regno Unito, Spagna

Ma a seconda delle variabili che si considerano (grado di attivazione/condizionalità; durata; copertura; adeguatezza del trasferimento; criteri di eleggibilità,…),  i raggruppamenti possono mutare.

Nonostante le diversità che persistono, negli ultimi anni si sta assistendo a una relativa convergenza verso alcuni obiettivi comuni:

  • Attivazione e condizionalità -> reingresso nel mercato del lavoro, formazione, responsabilità, autonomia
  • Razionalizzazione -> della spesa, delle misure
  • Integrazione -> delle politiche, dei servizi (la povertà ha un carattere multidimensionale)

II. L’esperienza italiana

Diverse tappe.

L’Italia, anche sulla scorta delle due Raccomandazioni Ue citate (92/441/CEE e 92/442/CEE), con la  legge 27 dicembre 1997 n. 449 ha introdotto nel 1998 e successivamente sperimentato in 39 comuni il Reddito Minimo di  Inserimento (D.l. 18 giugno  1998, n. 237 e dal DM 5 agosto 1998).

Prima ancora che si conoscessero i risultati del monitoraggio la legge finanziaria del 2001 (l. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 80) ha sancito l’avvio di una nuova fase di sperimentazione estesa a 306 comuni e inizialmente prevista a durata biennale, poi prorogata in varie tappe sino al 2007.

La valutazione è controversa e poco nota negli esiti definitivi, dunque è alquanto difficoltoso stilare un bilancio complessivo dell’intera sperimentazione.  necessità di separare i piani (gestionale, culturale, sociale…).

Il dibattito è proseguito a fasi alterne, sino alla previsione (mai attuata) dell’inserimento di un Reddito di ultima istanza ad opera del Piano nazionale contro la povertà del 2003-2005, proposta ripresa dal “Libro Bianco” sul futuro del modello sociale (Sacconi).

Di fatto uno schema nazionale di rm non è mai stato introdotto.

Come noto, unica misura nazionale esplicitamente a contrasto alla povertà assoluta è attualmente la “Carta Acquisti”. Meglio conosciuta come “Social Card”, è rivolta alle famiglie in condizione di bisogno, con minori al di sotto dei 3 anni o anziani di almeno 65. Introdotta nel 2008, è stata rilanciata nel 2011 con il Decreto Milleproroghe (divenuto poi Legge 10/2011), unitamente a una fase di sperimentazione che  dovrebbe portare ad ampliare la platea dei beneficiari, innalzare l’importo del  trasferimento economico (oltre gli attuali 40 euro mensili), affidare un ruolo centrale  agli enti caritativi del terzo settore nell’erogazione della carta e nella progettazione  di percorsi individuali di presa in carico.

In questo scenario, segnato dall’incertezza (e tendenzialmente dall’inerzia) di fondo, e nel quale si attende ancora! la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali da parte dello Stato a garanzia della tutela dei diritti civili e sociali in modo uniforme sul territorio nazionale, sono stati gli enti locali a muoversi.  Molte Regioni – ma anche alcune Province autonome – si sono dotate di leggi  proprie che – nel quadro della competenze ad essere conferite dalla  L. 328/2000 di  riforma del comparto socio-assitenziale e dalla riforma costituzionale del titolo V –, hanno previsto l’istituzione di dispositivi e misure di sostegno ai soggetti e alle famiglie in condizione di bisogno economico.

  • Emilia-Romagna, Puglia, Calabria, Piemonte, Campania, Basilicata, Toscana, Sardegna, Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lazio, e prima ancora in Valle d’Aosta, nelle Province autonome di Trento e Bolzano e alcuni Comuni del Nord. ->…solo alcuni sono dispositivi sono ancora in essere.

III. Reddito di autonomia

Perché un reddito di autonomia per la Regione Lombardia? Una proposta della Delegazione delle Caritas Lombarde

Le ragioni istituzionali le abbiamo appena accennate, e ci assicurano che non è improprio attendersi che sia la Regione a muoversi in tale ambito.

Le ragioni sostanziali di una misura di questo tipo sono molteplici; due su tutte:

–    “Mettere al centro i poveri”, considerare la povertà e l’esclusione sociale come temi prioritari nell’agenda politica; discutere dell’efficienza ed efficacia della spesa sociale in materia di contrasto alla povertà;

–    arrivare alla definizione di una strategia contro la povertà esplicita, complessiva e integrata, a carattere «abilitante», nel quadro di un sistema di protezione attivo, che offra sostegno economico e, soprattutto, opportunità e servizi; una strategia che riconosca il carattere multidimensionale della povertà e al tempo stesso valorizzi le responsabilità individuali e collettive di fronte al bisogno.

I tratti essenziali della misura

Il RdA prevede la corresponsione di un’erogazione monetaria a integrazione del reddito, unitamente a una serie di interventi – tesi a conseguire l’inclusione sociale, scolastica, formativa, lavorativa dei destinatari – parte di un Progetto di inclusione socio-economica, e nel rispetto dei vincoli di condizionalità posti ai beneficiari da progetto stesso. È dunque costruita in modo personalizzato – vale a dire tenuto conto delle caratteristiche e delle esigenze individuali e familiari – secondo obiettivi, contenuti, impegni, definiti mediante il coinvolgimento dei destinatari, in specie dei soggetti maggiorenni, e quindi sottoscritti dagli stessi.

È una misura assistenziale e insieme preventiva e promozionale, non assitenzialistica, che mira ad agire contro la povertà assoluta, e l’inclusione sociale e lavorativa delle persone in situazione di bisogno, innescando processi di empowerment. Intende agire anche contro la “trappola della povertà” mediante meccanismi di premialità per chi trova un lavoro, anche autonomo.

In tale prospettiva il RdA sostiene l’attivazione: sia dei beneficiari, chiamati in prima persona a perseguire la propria integrazione sociale ed economica, sia del welfare territoriale, il cui compito è quello di progettare soluzioni innovative, personalizzate e adeguate al tessuto socio-economico di riferimento. È una misura disegnata secondo i principi dell’attivazione, del learnfare e del capability approach. È calibrata per inserirsi in modo coerente tra i principi che informano il welfare lombardo.

È rivolta a individui e famiglie (soggetti italiani e stranieri regolari, con o senza dimora), con situazione reddituale e patrimoniale inferiore a un valore Isee prestabilito. È pensata con riferimento iniziale alle  famiglie con minori, con preferenza per i profili più vulnerabili: i nuclei monogenitore e quelli numerosi.

Quanto alla condizionalità, ai soggetti in età attiva e abili al lavoro in condizione di disoccupazione, inoccupazione, inattività sono richiesti l’obbligo di iscrizione presso i Centri per l’Impiego e la contemporanea sottoscrizione della Dichiarazione di Immediata Disponibilità al lavoro (DID). Il suddetto obbligo non è richiesto, in via temporanea e previa la presentazione di apposita certificazione atta a documentarne la relativa condizione, per: quanti sono già impegnati in percorsi di istruzione o formazione professionale; i responsabili – al massimo uno per nucleo familiare – della cura di figli in età inferiore a tre anni  o di persone con handicap in situazione di gravità accertato ai sensi di legge; quanti sono impegnati in programmi di recupero terapeutico.

Inoltre si richiede che i minori delle famiglie beneficiarie partecipino al sistema educativo e formativo. In particolare, sono da intendersi come vincolanti: il rispetto dell’obbligo di istruzione ai sensi di legge; per i giovani tra i 16 i 18 anni il completamento del diritto-dovere all’istruzione e formazione; per i bambini in età prescolare (3-5 anni, e a certe condizioni anche a partire dai 2) la frequenza a servizi a carattere socio-educativo.

Il Reddito di autonomia va dunque intesto come l’asse portante di una politica esplicita e universalistica di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale; una politica  complessiva, a carattere “abilitante” nei confronti delle persone in condizione di povertà, e integrata, ovvero che offra insieme sostegno economico, servizi e opportunità di attivazione e inclusione sociale, agendo in raccordo con altre politiche – anzitutto sociali, del lavoro, formative.

In sintesi il Rda mira a:

i.    individuare e rimuovere i fattori che comportano il rischio di povertà ed esclusione sociale;

ii.    valorizzare, promuovere, attivare le capacità e le risorse individuali e familiari nella definizione delle risposte al bisogno;

iii.    responsabilizzare i beneficiari nel conseguimento dell’integrazione sociale e dell’autonomia economica, evitando, invece, comportamenti di natura opportunistica

iv.    assicurare servizi e dispositivi di accompagnamento, integrazione politiche e strumenti (es. dote scuola, dote lavoro).

v.    razionalizzare la spesa regionale (facendo dunque ampiamente leva sulle risorse già messo in campo), le azioni, le competenze istituzionali in materia;

In termini più ampi:

– Il Reddito di autonomia è un dispositivo non assistenzialistico bensì promozionale ed emancipante, centrato sulla persona, costruito a partire dai bisogni e dalle risorse dei destinatari, finalizzato sostenere l’attivazione dei beneficiari chiamati in prima persona a perseguire la propria integrazione sociale ed economica.

– Agisce in chiave preventiva per contrastare la povertà e i processi di impoverimento, attribuendo centralità ai programmi di reinserimento sociale insieme a quelli di tipo occupazionale; agire cioè in modo “capacitante” (non si può dare responsabilità a chi non è in grado di sostenerla). Potemmo meglio definirlo Capability income

– Tutela e valorizza la famiglia, prima destinataria della misura, quando in difficoltà, coinvolta nel suo insieme in un percorso di uscita dalla condizione di bisogno che attiva le responsabilità di tutti i suoi membri, abbinando e condizionando l’erogazione di un trasferimento monetario alla partecipazione a un “Programma di inclusione socio-economica”, anche con finalità di contrasto alle disuguaglianze intergenerazionali.

– Riconosce nell’inserimento lavorativo, l’istruzione e la formazione quali elementi centrali del percorso di inclusione attiva, quali opportunità di empowerment, di recupero di capacità di cittadinanza attiva.

– Coinvolge il welfare comunitario e territoriale plurale, il cui compito è quello di progettare soluzioni innovative, personalizzate e adeguate al tessuto socio-economico di riferimento, valorizzando il raccordo tra pubblico e privato e il ruolo della società civile.

– Riconosce la necessità di una politica di contrasto alla povertà integrata in un insieme di policy più ampio, che concorrono a determinare le condizioni per l’uscita dalla condizione di bisogno.

– Valorizza la libertà di scelta, individuando nel Reddito di autonomia una chance per recuperare padronanza sulla propria vita, al fine di progettare responsabilmente un percorso esistenziale dotato di valore e significato. È qui in gioco non solo la libertà di scegliere a chi e come chiedere aiuto (che pure è un elemento presente nel dispositivo), ma è in gioco una libertà sostanziale, che a che fare appunto con i progetti di vita.

– A qualificare la misura – per i cui dettagli si rimanda a Lodigiani R., Riva E. (2011) – è l’impostazione di fondo:

  • Il Reddito di autonomia declina il principio dell’attivazione in una prospettiva ampia:
  • inserimento nel mercato del lavoro per quanti sono in grado di assumere un ruolo lavorativo;
  • istruzione e formazione, lavoro di cura, recupero terapeutico e della padronanza sulla propria vita per quanti non sono in condizione di inserirsi e rimanere sul mercato del lavoro, quantomeno nell’immediato.
  • Riconosce che anche attività e impegni diversi dal lavoro possono diventare occasioni di empowerment, consapevolezza e responsabilizzazione nei confronti di sé, della propria famiglia, del benessere collettivo.
  • Valorizza, in una prospettiva di learnfare, l’apprendimento lungo il corso della vita come opportunità di “capacitazione” in grado di contrastare le spirali dell’esclusione e della povertà. In particolare riconosce il valore dell’apprendimento dei bambini piccoli come risorsa per contrastare gli effetti intergenerazionali della povertà, secondo la prospettiva del social investment paradigm.

In conclusione, per dirla con Zigmunt Bauman, una misura di questo tipo è necessaria per  consentire alle persone di diventare da individui de jure a individui de facto. Ma dato che abbiamo utilizzato le categorie di Amartya Sen, possiamo dire che un dispositivo di questo tipo consente alle persone di recuperare la propria libertà sostanziale, la propria progettualità di vita, sia conservando un livello di vita dignitoso, che – come ricorda l’unione europea – dovrebbe essere un diritto della persona, sia consentendo recuperare le capacità di partecipazione attiva intesa in  senso lato.

In questi giorni il termine reddito minimo sembra tornare di attualità nel nostro paese. Non è ancora chiaro come lo si intenda né come lo si definisca. Ma, forse, il  momento è propizio per discutere senza preconcetti.

Bibliografia essenziale di riferimento

Frazer H., Marlier E. (2009), Minimum Income Schemes Across EU Member States, Synthesis Report, EU Network of National Independent Experts on Social Inclusion, October, http://www.peer-review-social-inclusion.eu

Irs (2001), The role of minimum income for social inclusion in the European Union 2007-2010, for European Parliament, Directorate General for Internal Policies Policy, Department A: Economic and Scientific Policy, Employment and Social Affairs, www.europarl.europa.eu/activities/committees/studies.do?language=EN

Lodigiani R., Riva E. (2011), Reddito di autonomia. Contrastare la povertà in una prospettiva di sussidiarietà attivante, Erickson, Trento

Reddito minimo: l’anomalia italiana nel quadro europeo. Una proposta innovativa

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