Realtà e rappresentazioni della povertà nell’Italia del dopoguerra
«Non pensavo di vivere abbastanza a lungo
da vedere sconfitta la miseria contadina»
Manlio Rossi-Doria
Nel quadro di una riflessione sull’evoluzione più recente delle condizioni di ricchezza, povertà e disuguaglianze, un’analisi incentrata sul caso dell’Italia nel secondo dopoguerra si deve proporre non solo di ampliare lo sguardo in una prospettiva storica, ma di fornire anche possibili spunti approfondendo gli aspetti delle rotture, delle discontinuità e delle permanenze.
Punto di partenza è la constatazione generale della centralità e della criticità della questione della povertà per una società che si autodefinisce democratica. Al di là delle dichiarazioni di principio, l’esistenza stessa del fenomeno mette in luce le contraddizioni insite nelle manifestazioni reali del sistema e finisce per interrogarne i fondamenti stessi: come giustificare infatti la disuguaglianza sostanziale in una società fondata sul principio dell’uguaglianza formale?
A livello teorico, gli approcci tradizionali hanno teso ad affrontare la povertà in un’ottica descrittiva e quantitativa, orientata ad identificare ed a quantificare i gruppi sociali interessati1. Tutti sembrano però fornirne uno sguardo parziale e sono tali da non permettere di comprendere il fenomeno nella sua globalità, vale a dire in quelle che sono le sue origini, le sue cause, i caratteri ed i meccanismi che governano la sua riproduzione. Per affrontare questi aspetti con riferimento alle loro manifestazioni moderne, la sociologia della povertà2 afferma la necessità di andare al di là delle ottiche tradizionali, a partire dall’idea che questo fenomeno vada analizzato in quanto costruzione sociale, dal momento che ogni società definisce i “suoi poveri”, determina il loro status sociale, sceglie se ed in che modo assisterli. Il nodo centrale diviene qui la relazione di interdipendenza che lega una società ai “suoi poveri”, che sarebbe mediata dalle forme di assistenza3.
Infine, ma non ultima, una doverosa precisazione. Per ragioni di sintesi nel seguito dell’analisi tenderemo a sovrapporre e ad utilizzare come sinonimi i termini di “povertà” e di “miseria”, sebbene la loro distinzione meriterebbe una trattazione più approfondita, capace di distinguerli non tanto a livello di soglie quantitative, quanto a partire dall’idea che, mentre il povero conserva un certo margine di autonomia per difendersi ed organizzarsi contro la necessità, il misero è ridotto all’impotenza e dipende dall’aiuto esterno per sopravvivere.
Per la nostra riflessione sulla realtà italiana degli anni Quaranta e Cinquanta utilizzeremo due tipologie di fonti: da una parte la documentazione ufficiale raccolta negli atti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla4 e quella sulla disoccupazione5, dall’altra le inchieste che potremmo definire “indipendenti”, in particolare le ricerche dedicate al Mezzogiorno, portate avanti da partiti, sindacati e, più in generale, da organizzazioni ed esponenti della società civile.
Per ragioni di spazio in questa sede ci occuperemo unicamente delle indagini condotte da Danilo Dolci di cui esamineremo il percorso a partire dai tre lavori usciti tra il 1955 ed il 19606.
La Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, che svolgerà i suoi lavori tra il 1951 ed il 1953, è presieduta dal socialdemocratico Ezio Vigorelli, affiancato, in qualità di vice, dal democristiano Lodovico Montini7; in parallelo opererà anche la Commissione parlamentare di inchiesta sulla disoccupazione, coordinata da Roberto Tremelloni, altro esponente del PSDI. Entrambe pensate nella continuità con la tradizione delle inchieste post-unitarie e con il modello del laburismo inglese alla Beveridge, queste iniziative sono concepite come antecedente e presupposto in vista di una fase politica di riformismo sociale. È interessante rilevare che l’Inchiesta sulla miseria giungerà ad una relazione generale condivisa, ad opera di Vigorelli. Questo traguardo, per quanto frutto di molteplici compromessi, che avevano finito per attenuare il potenziale analitico della documentazione raccolta, merita di essere segnalato, dal momento che non era per nulla scontato a priori, come dimostrerà il fallimento della commissione “consorella” sul terreno, ben più impervio e politicamente connotato, della disoccupazione.
L’Inchiesta costituisce in ogni caso una notevole svolta rispetto al passato. Essa conclude quella fase di distorsione o addirittura di negazione della povertà che aveva caratterizzato il ventennio fascista, per cui la miseria riguardava solamente il mondo capitalista, a cominciare dagli Stati Uniti della Grande Depressione, mentre le “virtù italiche” della parsimonia, della sobrietà e dell’arrangiarsi avrebbero messo in qualche modo al riparo il Paese dalle situazioni estreme di bisogno e di deprivazione.
A guidare le indagini della commissione sono in particolare tre interrogativi: «Qual è lo stato attuale della miseria? Quali sono le condizioni di vita delle classi povere? Quanta e quale parte della popolazione ha diritto all’intervento riparatore dello Stato ai sensi dell’art. 38 della Costituzione e per quali cause e in quali condizioni?»8. Il tutto si colloca poi in una prospettiva più ampia che vede nell’abolizione della miseria una necessità ed una priorità in vista del progresso economico e sociale dell’intera nazione9. Lo sguardo proposto nella Relazione generale riflette i due grandi filoni che stanno a fondamento dell’inchiesta: da una parte l’analisi, la descrizione e la misurazione della povertà10, dall’altra lo studio del sistema assistenziale e degli interventi, esistenti ed auspicabili, ad opera dello Stato11. A guidarla non è infatti la ricerca di una definizione della miseria, quanto la volontà di conoscere «la entità e le modalità del fenomeno»12, distinguendo inoltre tra aspetti economici e sociologici.
Pur avendo a disposizione un tempo limitato, ed anche al fine di evitare il rischio di eccessive interferenze con le iniziative dell’esecutivo, la commissione arriva ad accumulare, grazie ad una molteplicità di indagini incrociate, una notevole mole di informazioni e dati, capaci di restituire un quadro innovativo e decisamente interessante della situazione del Paese. Gli atti raccoglieranno poi il tutto, organizzandolo, ai fini della pubblicazione, in quattro Indagini tecniche13, due Indagini delle delegazioni parlamentari14 e cinque Monografie15, cui andrebbero aggiunti i risultati dell’inchiesta a carattere comunitario su Grassano16.
In collaborazione con l’Istituto centrale di statistica vengono realizzate l’indagine generale sulle condizioni di vita della popolazione (su un campione di 58.397 famiglie), abbinata a quelle sui redditi e sulle forze di lavoro, e l’indagine sulle condizioni di vita delle classi povere, sui bilanci familiari di 1847 famiglie povere assistite dai Comuni e dagli ECA.
Non ci si concentra sulla sola dimensione del reddito, ma, a partire da una serie di elementi sintomatici, si giunge ad un accertamento indiziario ed indiretto delle condizioni di vita delle classi povere, con l’elaborazione di un indicatore del tenore di vita, costruito incrociando la situazione sotto i tre aspetti dell’abitazione (grado di affollamento), dell’alimentazione (consumi di carne, zucchero e vino) e dell’abbigliamento (condizioni delle calzature)17. L’obiettivo è, in fondo, di identificare la miseria per combatterla. Si arriva così a stimare un totale di 1.357.000 famiglie misere (6,2 milioni di persone) e 1.345.000 famiglie disagiate e (5,9 milioni di persone)18; se per la prima categoria l’intervento pubblico dovrà essere riparatore, per la seconda dovrà piuttosto operare in una prospettiva preventiva. Una notevole attenzione viene posta anche verso le manifestazioni esteriori del fenomeno, in termini di malattie, di mortalità, di delinquenza minorile, di prostituzione e di mendicità19.
Nella ricerca delle cause della povertà, se il punto di partenza è la constatazione del livello del reddito, si tenta anche di risalire alle sue determinanti. Oltre alle menomazioni ed alle limitate capacità di lavoro dovute all’invalidità (fisica o psichica) ed alla vecchiaia, si segnala il peso della composizione della famiglia, del carico familiare e della posizione professionale, per cui emerge ancora la rilevanza di una miseria a carattere rurale. Il ruolo della disoccupazione, pur se riconosciuto come fattore cruciale, è tuttavia controbattuto, in ragione della portata politica di questa tematica. L’ultimo aspetto che merita di essere sottolineato è la dimensione territoriale del fenomeno ed il ruolo della «povertà non assistita»20: mentre la popolazione bisognosa tende a concentrarsi nel Mezzogiorno, le istituzioni di assistenza sono localizzate al nord.
Proprio il Sud è, per tutti gli anni Cinquanta, una sorta di laboratorio del rapporto tra modelli tradizionali e processi di modernizzazione, capace di attirare esperti, tecnici e studiosi, italiani ma non solo, interessati ad osservare e ad impegnarsi in questi luoghi di arretratezza estrema. Spesso sotto la spinta di intellettuali meridionalisti, in questo periodo fioriscono una serie di iniziative di base in un’ottica di riscatto, di coscientizzazione e di mobilitazione sociale: fra le più note c’è l’esperienza del triestino Danilo Dolci in Sicilia. Il suo lavoro educativo, che pur meriterebbe una ben più ampia ed articolata trattazione, può sostanzialmente essere riassunto nella volontà di far “incontrare” le persone con i loro problemi, al fine di renderle consapevoli e spingerle a prendere in mano il proprio destino21. A tal fine egli sostiene la necessità di un’immersione «non episodica e semituristica nella realtà»22, ma capace di coniugare una rigorosa analisi scientifica con un lavoro minuzioso di ascolto e di raccolta diretta delle testimonianze sul territorio. Si fa così promotore di diverse inchieste indipendenti e popolari, che mirano a ricostruire una sorta di auto-narrazione corale, frutto di un procedimento tutt’altro che ingenuo, scontato o semplicistico, come dimostrano le sue riflessioni sull’importanza del metodo da seguire23. Egli non ricerca né la rappresentatività, né i casi limiti, ma parte piuttosto dalla constatazione che «questa gente è viva così, uno per uno, non sono prodotti stereotipi in serie»24. Si tratta dunque di uno sguardo apertamente e volutamente particolare, che non rinuncia tuttavia ad avere una portata generalizzante, dal momento che «ogni situazione è possibile in quanto esiste un certo ambiente, e all’occhio attento è sempre indicativa del suo naturale contesto»25. Al rappresentativo si privilegia dunque l’esemplificativo, con al contempo la consapevolezza di aver scelto un punto di vista soggettivo e “partigiano”, non solo: «do per scontato che altri potrebbero vedere e comporre diversamente»26.
Proporremo qui un’analisi dell’itinerario del Dolci “esploratore della povertà” a partire da tre opere, edite nell’arco di cinque anni e tutte dedicate alla Sicilia. La prima, Banditi a Partinico, pubblicata nel 1955 da Laterza, è una sorta di preludio e, come ci ricorda Norberto Bobbio nella Prefazione, si interessa alle condizioni di vita «della gente più povera, dei disperati, dei messi al bando»27. Al centro troviamo la Relazione su Partinico che, pur se in una forma semplificata, prefigura le evoluzioni e le sperimentazioni successive, organizzandosi nelle seguenti sei parti: Note sui «precedenti», Come si campa, Come si amministra, Come si assiste e come si cura, Come si educa, Come si potrebbe risolvere.
L’Inchiesta a Palermo, uscita nel 1956 con Einaudi e riedita nel 1957 in versione ridotta, ha invece una struttura ben più complessa. Al centro vi è il tema del lavoro, anzi, per essere più precisi, si tratta di «uno studio sui “senza-lavoro” nella provincia di Palermo: come vive chi ha poco lavoro, il disoccupato, chi non ha un lavoro che sia vero lavoro»28. Lo studio si organizza in due parti. La prima consiste in un sondaggio statistico-psicologico frutto degli incontri con 100 disoccupati di Palermo e 500 persone, tra i 18 ed i 50 anni, abitanti negli 81 comuni della provincia. Ad ognuno è stato sottoposto un questionario semplificabile in undici quesiti29. A questa si affianca la seconda parte, in cui è raccolta la documentazione di persone e di ambienti, distinguendo il capoluogo dal resto della provincia. Precedute da una breve introduzione sulle condizioni materiali delle famiglie intervistate, le testimonianze dirette permettono di ricostruire una serie di itinerari individuali, in cui povertà e disoccupazione sono descritte nella cruda esperienza di chi le vive.
La “terza tappa”, Spreco, pubblicato da Einaudi nel 1960, può essere interpretata come una sorta di punto di arrivo della riflessione sulla povertà in Dolci e di una metodologia che mira a coniugare racconto corale ed inchiesta documentale: «ogni racconto è così composto da tre voci, da tre diversi punti di vista. Tante volte il rapporto tra le voci non è strettamente logico: rispecchia la situazione. Le monografie poi dànno, direttamente o meno, per molti casi, la traduzione razionale»30. Ancora una volta la struttura è duplice, per cui ogni sezione si compone di una parte di racconti-documenti, cui seguono due monografie. I primi sono costruiti a partire dalle testimonianze dirette raccolte sul terreno e riportate nella maniera più fedele possibile. Le monografie sono invece dei veri e propri studi31 realizzati grazie al contributo ed alla collaborazione di docenti e ricercatori provenienti da tutta Italia32. Anche lo spazio si è progressivamente aperto: dalla piccola Partinico siamo passati alla città di Palermo ed all’intera provincia, per approdare qui al complesso universo della Sicilia occidentale, esplorato in particolare nelle quattro zone di Cammarata e Palma di Montechiaro, di Corleone, di Roccamena, di Menfi.
La riflessione sulla povertà ha poi compiuto un salto interpretativo importante e si cerca di coglierne la portata politica tramite l’introduzione del concetto di “spreco”, riconducibile alle quattro categorie della terra, degli uomini, della ricchezza e dell’acqua. Con questo termine si vuole in sostanza denunciare la dispersione, la sottrazione, se non addirittura la distruzione di risorse che sarebbero indispensabili nella prospettiva dello sviluppo tanto sociale quanto economico dell’isola: «spesso letteralmente si butta via; spesso, consapevoli o non, si lasciano inutilizzate risorse già esistenti; spesso la formazione di nuove risorse è trascurata: risorse solo potenziali non vengono valorizzate, mentre capitali ingenti sono sciupati, o tenuti fermi, o mal diretti»33.
Capire la miseria per risolverla, questa sembra essere la prospettiva fondante del progetto di Dolci, che rifiuta la visione dei poveri come “mondo separato” e si propone piuttosto di collocarne le problematiche nel più ampio contesto dei processi di sviluppo in atto, superando così tanto i determinismi quanto le semplificazioni o le ingenuità: ci sono infatti i freni allo sviluppo, ma anche la coscienza della propria condizione, c’è una profonda dignità, ma anche la miseria e la superstizione. Si tratta, in fondo, di uno sguardo tutt’altro che assolutorio, anzi, storicizzando i fenomeni, si vuole dimostrare che l’ineluttabile non esiste e che ogni situazione è il frutto di una costruzione in cui l’uomo ha la possibilità di intervenire attivamente. Così, ad esempio, piuttosto che appellarsi, come spesso accadeva, al retaggio di un’immutabilità secolare, si preferisce indagare i limiti e gli errori della riforma agraria in atto o delle modalità concrete di realizzazione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno.
Se il confronto tra l’Inchiesta sulla miseria ed i lavori di Danilo Dolci può essere estremamente interessante, l’obiettivo delle analisi svolte fino a questo punto non è assolutamente quello di contrapporre fonti ufficiali e pamphlet militanti o azioni delle istituzioni ed iniziative della società civile. Le due prospettive non sono per nulla in opposizione, piuttosto esse forniscono punti di vista differenti e tra loro complementari: se è infatti vero che Dolci si può permettere un’empatia ed una partecipazione per la condizione dei poveri sconosciuta al formalismo istituzionale, questo ha tuttavia una pretesa di esaustività, funzionale alle scelte politiche, che non può certo essere trascurata. La distinzione più significativa si situa piuttosto al livello delle differenti logiche di fondo: tra chi concepisce la miseria sotto il profilo dell’assistenza, questione collaterale rispetto ad altre esigenze avvertite come prioritarie, a cominciare dallo sviluppo economico generale, e chi invece cerca di coglierne la portata strutturale e la natura sostanziale, vedendo nei poveri una risorsa da valorizzare, piuttosto che un problema da rimuovere.
Volendo trasportare il discorso sull’attualità, ci si rende innanzi tutto conto che due contesti assai diversi sono a confronto: se infatti l’Italia del dopoguerra si stava avviando sulla strada della crescita e di quello che sarebbe stato definito il “miracolo economico”, oggi ci troviamo di fronte ad una situazione di crisi e di declino, con in più la consapevolezza dei limiti, fisici e strutturali, allo sviluppo, oltre che nel quadro di un più generale processo, se non di spostamento, quanto meno di ampliamento delle egemonie a livello mondiale, destinato a mettere in discussione il primato occidentale. Per il futuro diviene allora legittimo interrogarsi sulle effettive possibilità di sopravvivenza del modello, che sta alla base delle democrazie europee, fondato sul rapporto tra redistribuzione e crescita economica, in cui i trasferimenti in favore delle fasce più deboli della popolazione erano una sorta di “risarcimento” per il loro contributo alla creazione della ricchezza. La lezione di Karl Polanyi ne La grande trasformazione34 ci ricorda d’altra parte che, soprattutto nei momenti di crisi, le tensioni tra capitalismo e principi democratici, tutt’altro che componibili nell’illusoria convergenza della “fine della storia”, possono sfociare nel rischio dei fascismi e delle regressioni autoritarie. Al di là delle sue possibili conseguenze pratiche, questo timore sembra condurre in particolare le forze progressiste in una sorta di impasse teorica, che le rende incapaci di costruire, o anche solo di pensare, progetti realmente alternativi, privilegiando piuttosto compromessi al ribasso, nel timore che una rottura radicale sia destinata a fallimenti peggiori.
1 Sui tre approcci tradizionali alla povertà (monetario, soggettivo e delle condizioni di vita), nel numero 308-310 del 1998 della rivista Économie et statistique dedicato alla misura della povertà, si cerca di metterli a confronto in un’ottica comparativa, cfr LOLLIVIER Stéfan, VERGER Daniel, «Pauvreté d’existence, monétaire ou subjective sont distinctes», ibid., pp. 113-142.
2 Si veda l’ampia opera di Paugam, tra cui in particolare il testo in cui elabora il concetto di «forme elementari della povertà», cfr. PAUGAM Serge, Les formes élémentaires de la pauvreté, Presses Universitaires de France, Parigi, 2005.
3 Già Simmel aveva visto nella relazione di assistenza la “marca identitaria” ed il criterio di appartenenza sociale identificante la condizione di povero, cfr SIMMEL Georg, Les pauvres, Presses Universitaires de France, Parigi, 1998 (prima edizione tedesca 1907).
4 Atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, 14 volumi, Camera dei Deputati. Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, Roma, 1953-1958.
5 La disoccupazione in Italia. Atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla disoccupazione, 5 volumi, Camera dei Deputati. Commissione parlamentare di inchiesta sulla disoccupazione, Roma, 1953.
6 Si tratta in particolare di Banditi a Partinico (Laterza, 1955), Inchiesta a Palermo (Einaudi, 1956 di cui uscirà anche una seconda edizione ridotta nel 1957), Spreco (Einaudi, 1960).
7 Sulla vicenda ed il lavoro della commissione si veda in particolare l’ampia analisi proposta in FIOCCO Gianluca, L’Italia prima del miracolo economico. L’inchiesta parlamentare sulla miseria 1951-1954, Piero Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma, 2004.
8 Atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla miseria, cit., 1953, vol. II, p. 13.
9 Cfr. ibid., 1953, vol. I, p. 215.
10 Ibid., 1953, vol. I, pp. 17-112.
11 Ibid., 1953, vol. I, pp. 113-212.
12 Ibid., 1953, vol. II, p. 19.
13 Si tratta di: Condizioni di vita nelle classi misere, Legislazione assistenziale, Criteri e metodi di assistenza, Mezzi finanziari per l’assistenza.
14 Si tratta di: La miseria nelle grandi città, dedicata alle periferie di Milano, Roma e Napoli, e La miseria in alcune zone depresse, in particolare la montagna alpina, il Delta padano, la montagna abruzzese, la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna.
15 Si tratta di: Problemi economico-sociali della miseria, Aspetti particolari di miseria, Sistemi di sicurezza sociale, Previdenza sociale e assistenza sanitaria, Esperienze di servizio sociale. 16 Atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla miseria, cit., 1954, vol. XIV.
17 Ibid., 1953, vol. II, pp. 62-63.
18 Ibid., 1953, vol. II, p. 46.
19 Raccolte in particolare nel volume sugli Aspetti particolari di miseria, in ibid., 1953, vol. IX.
20 Ibid., 1953, vol. II, p. 107.
21 Celebre fu, ad esempio, il suo arresto il 2 febbraio 1956 per aver guidato lo “sciopero alla rovescia” dei braccianti sulla Trazzera vecchia di Partinico, abbandonata all’incuria. Difeso da Piero Calamandrei nel processo che ne seguì, Dolci invocò il diritto-dovere al lavoro, iscritto nell’articolo 4 della Costituzione italiana. Cfr. Processo all’articolo 4 nella documentazione di Achille Battaglia, Norberto Bobbio, Piero Calamandrei, Alberto Carocci, Federico Comandini, Danilo Dolci, Mauro Gobbini, Vittorio Gorresio, Carlo Levi, Lucio Lombardo-Radice, Maria Fermisa, Einaudi, Torino, 1956.
22 DOLCI Danilo, Spreco. Documenti e inchieste su alcuni apetti dello spreco nella Sicilia occidentale, Einaudi, Torino, 1960, p. 20.
23 Cfr. DOLCI Danilo, Inchiesta a Palermo, Einaudi, Torino, 1956, p. 11.
24 DOLCI, Danilo, Spreco, cit., p. 19.
25 Ibid., pp. 19-20.
26 Ibid., p. 20.
27 BOBBIO Norberto, Prefazione, in DOLCI Danilo, Banditi a Partinico, Laterza, Bari, 1955, p. 12.
28 DOLCI Danilo, Inchiesta a Palermo, cit., p. 9.
29 Gli undici quesiti sono così semplificabili: «1. Hai un mestiere? 2. Quante giornate lavori in un anno? 3. Che classe hai frequentato? 4. Quando non lavori, come cerchi d’arrangiarti? 5. Perché sei disoccupato? 6. Dio vuole che tu sia disoccupato? 7. Di chi è la colpa se tu sei disoccupato? 8. Come, cosa dovrebbero fare i partiti in Italia? 9. Il voto è segreto? 10. Quando cerchi lavoro, guardano di che partito sei? 11. Cosa credi che uno, ciascuno, debba fare per eliminare la disoccupazione?».
30 DOLCI Danilo, Spreco, cit., p. 19.
31 Si trattava in particolare di monografie scientifiche ricche di dati e di materiali su temi differenti, dalla situazione fondiaria a quella occupazionale, dalle condizioni igieniche all’utilizzo dell’acqua, per realizzare le quali Dolci si avvaleva della collaborazione di vari specialisti, come medici, economisti ed agronomi. Queste riguardano in particolare: il problema delle frane nella valle del Tumarrano (zona di Cammarata), le condizioni igienico-sanitarie di 600 famiglie a Palma di Montechiaro, l’elenco degli assassinati e la causa del decesso nella zona di Corleone e rilievo-campione degli assassinii a lupara in Sicilia, gli assegnatari della riforma agraria a Corleone, il villaggio dell’ERAS a Caparrini (zona di Roccamena), la consistenza ed il profilo della sottoccupazione a Roccamena, un campione di 200 ditte proprietarie di terreni in tre zone (Fiore, Bertolino e Torrenuova) del comprensorio di bonifica ed irrigazione Basso Belice-Carboi, le condizioni dell’irrigazione nel comprensorio Basso Belice-Carboi. L’edizione fu inoltre corredata anche da un’ampia documentazione fotografica ad opera di André Martin, che ben si associava all’approccio proposto.
32 Basti pensare che, nei ringraziamenti, viene citato il lavoro di consulenza volto da Paolo Sylos Labini, docente all’Università di Catania tra il ’57 ed il ’60, e da Francesco Platzer, professore alla facoltà di agronomia di Palermo.
33 Ibid., p. 17.
34 Cfr. POLANYI Karl, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974 (prima edizione americana 1944).
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