Cercherò in questo intervento conclusivo di dirvi che cosa secondo me abbiamo imparato, o almeno io credo di aver imparato quest’oggi.
Primo punto, l’importanza delle politiche pubbliche. Mi ha colpito il paragone spesso ricorrente questa mattina con la Grande Crisi del ’29 e l’idea che se questa crisi non ha avuto un impatto finora socialmente devastante lo si deve al fatto, come qualcuno diceva, che abbiamo “imparato la lezione”. Esistono quindi maggiori dotazioni di politiche pubbliche, di interventi dello Stato, degli enti locali in qualche misura, per fronteggiare povertà e disoccupazione. Questo credo sia un fatto importante, ma nello stesso tempo trascina una domanda: riusciremo ancora a permettercelo? Durerà la capacità di fronteggiamento, di contenimento degli effetti della depressione, della crisi economica, da parte delle politiche pubbliche? Stiamo notando in più di un paese il fatto che finisce il periodo degli ammortizzatori, finisce la dotazione di risorse assegnate a queste misure. Allora si cerca un po’ di rifinanziarle, ma qualche pezzo si perde per la strada. Nello stesso tempo si va in direzione di politiche di contenimento della spesa pubblica come quelle che sono discusse in questi giorni anche dal nostro Parlamento, come l’allungamento dell’età pensionabile. Una misura del genere ha un effetto, quello di mettere in pericolo, in una condizione di fragilità, quelle fasce di lavoratori anziani che sono a rischio nel mercato del lavoro ma non possono più scivolare facilmente, quasi automaticamente verso la pensione. Questo è stato un grandissimo dispositivo di fronteggiamento di precedenti fenomeni di ristrutturazione e di perdita di posti di lavoro nell’Italia del passato. Devo dire quando ho sentito che a Termini Imerese sostanzialmente si andava al prepensionamento sono rimasto stupito, perché mi sembrava che nell’Italia di oggi queste vecchie soluzioni fossero ormai decotte. Qualche volta dunque succede ancora, ma in presenza evidentemente di situazioni molto particolari: la Fiat, la Sicilia, regione particolarmente difficile, industria dell’auto. Quindi politiche pubbliche importanti, ma politiche pubbliche nello stesso tempo che hanno qualche interrogativo nello zaino.
Secondo aspetto saliente, che più volte è risuonato, mi pare, è il problema della lotta contro le disuguaglianze, richiamato in diversi interventi. Credo che siano delle parole, “disuguaglianze” come d’altronde “povertà”, “classe sociale”, che erano andate un po’ fuori moda. Così come l’idea di un maggiore intervento dello Stato sociale a tutela dei cittadini poveri: erano discorsi che non godevano di molta fortuna prima della crisi, cinque anni fa. Non vorrei soffermarmi troppo sull’idea che dall’America era rifluita verso l’Europa l’idea che lo Stato non fosse la risposta, ma il problema. Chi oserebbe ancora dire oggi una cosa del genere, che negli scorsi anni ha fatto vincere campagne elettorali negli Stati Uniti e in altri paesi? L’idea che lo Stato fosse un nemico e che si dovesse lasciare mano libera al mercato, ridurre lo stato per avere una società migliore, più prospera, più dinamica, per avere anche minore povertà: questo veniva teorizzato.
Credo che abbiamo bisogno invece di ricostruire un rapporto più saggio e più organico tra Stato, mercato, società civile, famiglie. Questa quadratura del cerchio è oggi più problematica, mi viene da dire: avremmo bisogno di un nuovo Keynes, avremmo bisogno di nuove sintesi teoriche e politiche, capaci di rimettere in carreggiata uno sviluppo virtuoso, capaci di far crescere insieme l’economia e la società. Io non so se siamo a un cambio d’epoca. Potrei dire che da quando io ho l’età della ragione si parla continuamente di crisi e più volte è stata profetizzata la fine del capitalismo. Il capitalismo fin qui ha dimostrato in realtà grande vitalità, più capacità di ripresa dei suoi detrattori, però nello stesso tempo evocavo Keynes: il capitalismo saggio degli anni migliori del dopoguerra aveva imparato che per funzionare bene aveva bisogno di istituzioni pubbliche funzionanti, di una società civile dinamica, di una buona politica. Siamo poi entrati in una fase in cui, oggi lo vediamo con quel distacco critico che il tempo ci dà, il capitalismo si è svincolato da questa idea delle istituzioni pubbliche regolatrici, della società buona. Ha pensato di poter correre sulle sue gambe e di correre meglio se non aveva vincoli e binari entro cui muoversi. Ci ha portato alla Lehman Brothers. Credo che noi oggi stiamo cercando di rimettere insieme i cocci di una società in cui il tema delle disuguaglianze è emblematico delle distorsioni legate a un modello di sviluppo che ha sbilanciato, ha rotto gli equilibri tra Stato, mercato e società che avevano alimentato i decenni migliori, quelli che i francesi chiamo i Trent’anni gloriosi del dopoguerra . Abbiamo bisogno di una migliore politica, capace non solo di accompagnare lo sviluppo ma anche di riavviare processi di ridistribuzione equilibrati e capaci di ridurre fondamentalmente le disuguaglianze.
Il terzo punto che credo sia importante cogliere, e che credo valga molto per la povertà in un contesto come quello milanese-lombardo, è l’accumulazione di fattori di rischio e di vulnerabilità. Nella nostra realtà, mi sembra, raramente la persona cade in povertà soltanto perché ha perso il lavoro, ma i problemi più seri, la vulnerabilità più severa interviene quando la perdita del lavoro si salda con cattive condizioni di salute, con la mancanza di una rete familiare adeguata, con il fatto che per qualche motivo non si entra nella rete degli ammortizzatori esistenti, con il fatto che le reti sociali primarie e secondarie, come il vicinato, non sono sufficientemente supportive. Credo che sia particolarmente difficile lottare contro la povertà oggi a Milano perché la povertà è spesso l’effetto di una carriera sociale discendente in cui si cumulano diversi fattori di deprivazione e di disagio. Questo è anche d’altronde il risultato di una ricerca che abbiamo condotto un paio di anni fa sull’esclusione sociale grave presso la Casa della Carità. Un profilo multidimensionale sembra caratterizzare molto la povertà nei contesti di benessere, dove la persona vulnerabile, la persona che finisce in condizioni di esclusione, è quella che ha percorso una carriera discendente, contraddistinta appunto da una serie di eventi che producono svantaggi e forme di esclusione.
Nel pomeriggio credo che l’aspetto più interessante sia il fatto che sono entrati maggiormente in scena i soggetti, si è parlato meno di politiche e di macrodimensioni strutturali e si è parlato di più di persone, si è parlato di più di condizioni biografiche, si è parlato appunto di più dei poveri, se vogliamo usare questo vecchio termine che oggi ritorna di attualità. Mi ha colpito molto per esempio il discorso sulla relazione di interdipendenza tra la povertà e la società, il fatto che ogni società ha i suoi poveri, ogni società decide come trattarli, ogni società decide se stigmatizzarli o meno: questo è stato l’elemento molto rilevante dell’ultima relazione che abbiamo ascoltato.
Qui credo ci sia un punto culturale e politico che ci tocca da vicino: i poveri di altri tempi erano una forza politica, anche perché la povertà era più connessa al lavoro, era più connessa a una condizione anche numericamente maggioritaria. Sto pensando naturalmente alla classe operaia dell’Ottocento, dei primi tre quarti del Novecento in realtà. La questione della povertà e la questione operaia erano molto connesse. Il riformismo sociale ha tra le sue radici culturali anche l’idea che se non si volevano le barricate per le strade, le rivolte di piazza bisognava intervenire in maniera consapevole, saggia, per lenire la povertà e concedere alla classe operaia diritti politici e poi diritti sociali, in altri termini una cittadinanza allargata e moderna.
Ricordiamo che le prime assicurazioni sociali di Bismarck sorgono in Germania come risposta al socialismo nascente e il welfare state di Lord Beveridge nell’Inghilterra della seconda guerra mondiale, quando si trattava di chiedere alle classi popolari il sangue, lo sforzo bellico massimo. Quindi grandi momenti di crisi sono stati anche grandi momenti di riformismo, ma questo in condizioni di capacità politica e organizzativa delle classi popolari. Oggi non è un caso secondo me che da una parte sia debole la capacità vulnerante, la capacità organizzativa e oppositiva delle classi popolari e operaie, e dall’altra manchi un disegno di riformismo sociale. Perché le due dimensioni mi sembra storicamente si siano spesso intrecciate, correlate. Quindi credo che il grande sforzo anche politico, intellettuale a cui siamo chiamati è quello di elaborare nuove strategie riformiste lungimiranti anche se non si percepisce immediatamente un clima di rivolta sociale. È stato più volte notato, tutto sommato anche nella Spagna degli indignados, naturalmente poi nella nostra Italia, che non si sono agitati molto i disoccupati, i giovani senza lavoro. È una strana contraddizione, disuguaglianze accresciute e povertà che mordono nella carne viva della società non generano finora grande conflittualità sociale. Certamente hanno contato gli ammortizzatori pubblici, potremmo ricordare ancora una volta la capacità di contenimento delle famiglie di origine nei confronti della povertà, potremmo parlare del prolungamento degli studi, qualcuno ha evocato il fatto che riparte l’emigrazione dall’Italia, è ripartita ormai da anni l’emigrazione dei cervelli verso l’estero. Qualcuno dei presenti ne è anche biograficamente testimone, e anche nel caso spagnolo questo si sta verificando.
Possiamo quindi evocare diversi pezzi di spiegazione di questa scarsa propensione al conflitto dei poveri e dei giovani di oggi, però credo che sarebbe sbagliato sottovalutarla e che degli intellettuali oltre che dei politici lungimiranti dovrebbero oggi lavorare di più per cercare di produrre le condizioni di un nuovo riformismo sociale. In fondo se ci guardiamo di nuovo un pochino indietro possiamo richiamare grandi modelli: Lord Beveridge per il welfare state. Ci fu una grande movimento intellettuale di preparazione di quelle riforme, ma anche il liberismo vincente nell’ultimo quarto del secolo scorso ha avuto delle matrici intellettuali, ci sono state grandi scuole di pensiero che hanno informato la politica e hanno poi convinto la società che fosse giusto deregolamentare, che fosse giusto ridurre l’importanza dello stato nella regolazione della vita economica e nel riequilibrio delle disuguaglianze sociali.
Credo sia importante oggi acquisire una nuova capacità di analisi della povertà, sviluppando nuove capacità di progettazione politica e sociale. In questo senso la discussione sul reddito minimo di cittadinanza, sul reddito di autonomia appare uno spunto di grande interesse, su cui proseguire la riflessione.
Credo che abbiamo bisogno di nuove sinergie tra il pensiero e l’azione, e questo è l’augurio che faccio alla Fondazione Roberto Franceschi che ha organizzato questo incontro, a tutti voi che in vario modo siete impegnati su questi temi. Credo che abbiamo bisogno di giornate come queste, di laboratori come questi, di interventi come quelli che abbiamo ascoltato per porre le basi di una nuova sfida contro la povertà e la disuguaglianza. Grazie a tutti.
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