Il completamento e l’apertura al pubblico dell’archivio Franceschi rappresentano una tappa essenziale del lavoro che la Fondazione ha compiuto nell’arco di mezzo secolo e continua a svolgere dando alla memoria un valore e un significato che vanno oltre la conoscenza dei fatti. La vita stessa della Fondazione, della quale oggi viene documentata la nascita con le carte del lungo percorso processuale, è stimolo costante a un rapporto critico e costruttivo con la storia e dunque a una partecipazione consapevole al presente, come Lydia ha insegnato nei lunghi anni della sua attività di docente e di preside, dedicata alla formazione dei giovani. Gli interventi dei rappresentanti delle istituzioni (polizia, carabinieri, magistratura) diretti a cancellare le prove dell’uso illecito delle armi, costato la vita a Roberto, l’aperta denuncia di questi comportamenti inqualificabili nelle stesse ordinanze e sentenze che pure hanno dovuto arrendersi alle conseguenze nefaste delle ripetute manipolazioni, alle menzogne dei testimoni in divisa guidate dall’alto, all’ostinato rifiuto di ammettere qualsiasi responsabilità da parte del potere costituito a ogni livello, concorrono a documentare l’ennesimo episodio di violenza di Stato (da cui è funestata la storia della nostra democrazia) ma hanno anche un valore esemplare poiché fanno emergere le contraddizioni interne alle istituzioni, e in particolare alla magistratura che, costretta a prendere atto della distruzione e della falsificazione delle prove, non se n’è resa complice descrivendo puntualmente, al termine dell’indagine istruttoria e dei dibattimenti in aula, gli illeciti accertati e condannando i responsabili sia di falsa testimonianza sia di alterazione delle armi (oltre che, alla fine, lo Stato stesso, condannato al risarcimento del danno). La lettura dei documenti dell’archivio, che appassiona per la diretta illustrazione di una pagina drammatica della nostra storia recente, mette anche in risalto (se mai ve ne fosse bisogno, nei tempi attuali) la necessità della vigile partecipazione di ognuno di noi alla vita della democrazia. Spero quindi che i giovani, soprattutto, consultino numerosi questo importante archivio e ne sappiano trarre motivo di riflessione e di impegno.
Avvocato Marco Janni

Indagini e processi

L’inchiesta per la morte di Roberto Franceschi cominciò a scossoni. Il primo a indagare sui fatti fu il Sostituto Procuratore della Repubblica Antonio Pivotti, che fu costretto subito a lasciare il posto a un altro Sostituto, Elio Vaccari, anche lui poi estromesso dalle indagini. Il Procuratore Capo Giuseppe Micale avocò l’indagine e trasmise il fascicolo all’Ufficio Istruzione del Tribunale motivando la scelta con la “complessità delle indagini”. La perizia balistica accertò che le pallottole che avevano colpito Roberto Franceschi, Roberto Piacentini e una Fiat 500 provenivano tutte dalla stessa arma: la pistola calibro 7, 65 in dotazione all’agente Gianni Gallo. Molti di più erano però stati gli agenti e funzionari che avevano fatto uso delle armi, stando sia alle testimonianze che alla perizia chimica sui loro indumenti. Fu sempre la perizia balistica, nella sua parte chimica, ad accertare che spararono quanto meno il vicequestore Paolella, la guardia Di Stefano, addetto all’ufficio politico della questura, e l’appuntato Cosentino; a questi si doveva aggiungere il vice brigadiere Agatino Puglisi per sua stessa ammissione.

Alcuni testimoni raccontarono di aver visto sparare persone in abiti civili, e tali erano Paolella e Di Stefano, mentre Cosentino sin dal primo momento venne identificato da Piacentini per la divisa blu che indossava. Gianni Gallo, ricoverato all’ospedale militare di Baggio in stato di choc, si trincerò sempre dietro una amnesia retrograda totale, ma la versione che fosse stato lui a sparare con la propria arma venne avvalorata dalla Questura secondo la quale Gallo aveva reagito in preda al panico causato da una molotov che aveva colpito la sua camionetta. Venne però riscontrato che la pistola di Gallo era stata manomessa dopo gli spari con l’inserimento nel suo caricatore di un certo numero di cartucce, 2 o 3, in sostituzione di altrettante cartucce esplose. Anche il caricatore della pistola dell’agente Manzi venne manomesso, allo scopo di creare un riscontro oggettivo alla falsa versione di Puglisi di avere esploso due colpi con la predetta arma.

Per la medesima finalità, gli agenti Gatta e Bonvino erano stati indotti a dichiarare di avere rinvenuto in via Sarfatti cartucce e bossoli. Un numero rilevante di bossoli, almeno una decina, prontamente raccolti sul luogo dei fatti da alcune guardie e consegnati a “uno dell’Ufficio Politico” della Questura, non approdarono mai sul tavolo del magistrato inquirente, e furono definitivamente sottratti al processo.

A questo bisogna infine aggiungere che le pistole di Paolella, Cestari, Germani, Cont, Di Stefano e Cosentino, sequestrate per ordine del PM, vennero dopo il sequestro parzialmente smontate ed esaminate in Questura, con l’intervento di un maresciallo armaiolo, senza che il magistrato ne fosse informato né prima, né dopo.

Il giudice istruttore, Ovilio Urbisci, seguendo un percorso logico concluse che i colpi sparati dalla polizia furono non meno di quindici. Si accertò che tra funzionari e agenti furono almeno in cinque a fare uso di armi da fuoco, smentendo la versione ufficiale della Questura, e che una persona aveva sparato proprio dal centro dell’incrocio con la via Sarfatti. Il tiratore non poteva essere nessuno tra Gianni Gallo, Agatino Puglisi, Vittorio Di Stefano, Mario Cosentino, perché avevano sparato da posizione diversa, dal marciapiedi di via Sarfatti e a ridosso degli automezzi parcheggiati. L’indagine venne così circoscritta ai sei uomini della polizia che la sera del 23 gennaio 1973 vestivano abiti borghesi: Paolella, Cardile, Cestari, Germani, Di Stefano e Cont.

Alla fine vennero rinviati a giudizio Gianni Gallo e Agatino Puglisi, in alternativa tra loro, per omicidio preterintenzionale e lesioni volontarie aggravate, lo stesso Puglisi e Claudio Savarese per falso nel verbale di sequestro della pistola di Manzi, Roberto Piacentini e Sergio Cusani per oltraggio a pubblico ufficiale, lesioni volontarie semplici e aggravate, danneggiamento, detenzione e porto di bottiglie incendiarie.

Processi Gallo e Parente

Il processo cominciò il 10 maggio 1979 davanti alla Seconda sezione della Corte di Assise di Milano, Presidente Antonio Cusumano e PM Gino Alma. Il 18 maggio Domenico Parente ritrattò ciò che in precedenza aveva dichiarato al Giudice Istruttore, cambiando versione per confermare le dichiarazioni di Puglisi. Parente venne così arrestato in aula per falsa testimonianza. Il 22 maggio 1979 cominciò in parallelo il processo nei suoi confronti. Domenico Parente venne condannato a sei mesi di reclusione. Dopo un passaggio in Cassazione che rinviò di nuovo la decisione in Assise, la condanna venne confermata il 30 maggio 1981. Il processo Gallo si concluse dopo nove ore di camera di consiglio il 18 luglio 1979. Puglisi e Gallo vennero assolti per non aver commesso il fatto; Cusani e Piacentini per insufficienza di prove e amnistia; Savarese e Puglisi vennero condannati a un anno e sei mesi per aver falsificato il verbale relativo al sequestro delle armi d’ordinanza. La Corte di Assise di Appello, il 14 luglio 1981, confermò la sentenza di primo grado. La Corte di Cassazione il 24 novembre 1983 rigettò i ricorsi di Savarese e Puglisi e del Procuratore Generale di Milano.

Processo Paolella

Nel frattempo, con ordine di cattura del 6 luglio 1981 il vice questore Tommaso Paolella era stato arrestato per gli stessi reati di omicidio preterintenzionale e lesioni già contestati a Gallo e Puglisi. Il processo si aprì il 10 maggio 1984. Il 7 giugno 1984 la Corte di Assise assolse Paolella per insufficienza di prove. Non era certa, in base alla ricostruzione delle traiettorie, la prova che a colpire Franceschi e Piacentini fosse stata la pistola da cui erano partiti i colpi al centro dell’incrocio di via Sarfatti dove Paolella si trovava. Il processo approdò così in Corte di Assise di Appello, dove il 12 aprile 1985 Paolella venne assolto per non aver commesso il fatto.

Conservazione e condizioni di accesso

La documentazione prodotta nei processi dalle parti civili è stata raccolta dall’avvocato difensore Marco Janni e conservata in un fondo dedicato ora versato presso l’archivio della Fondazione Roberto Franceschi, che custodisce anche altri importanti fondi documentari, tra cui, in particolare, i manoscritti e gli appunti di Roberto Franceschi, i documenti del processo e quelli riguardanti l’attività politica e intellettuale di Lydia Franceschi, nonché la sua ampia raccolta epistolare e la corrispondenza con politici e intellettuali italiani di rilievo, fra cui Umberto Terracini, Aldo Aniasi, Sergio Segio, Ludovico Geymonat, Arialdo Banfi, Riccardo Lombardi, Giulio Alfredo Maccacaro, Giovanni Spadolini, Giorgio Napolitano, Vittorio Korach, Sandro Pertini, Giorgio Galli, Lellio Basso, Tina Anselmi. L’Archivio fotografico conserva in particolare le fotografie originali di Roberto, quelle del suo funerale, delle manifestazioni di protesta durante il processo e dei funerali di Piazza della Loggia. Il fondo è consultabile, seguendo le regole imposte dalla legge sulla privacy, nella sede della Fondazione Roberto Franceschi in via Val D’Ossola, 19 a Milano previo appuntamento (scrivere a fondazione@fondfranceschi.it).

Il riordino del fondo dell’Avvocato Marco Janni dei processi per la morte di Roberto Franceschi è stato curato dall’archivista Francesco Lisanti e realizzato con il contributo del Comune di Milano.