Quel maglio di ferro immenso sta lì dal ‘77. Accanto alla Bocconi, all’angolo che si insanguinò una sera d’inverno, di fronte a parco Ravizza. L’altra mattina ai suoi piedi Lydia sembrava più piccola. Anche se stava una spanna sopra gli altri, sul palco dal quale parlava il sindaco Pisapia. Davanti a lei un centinaio, e anche più, di donne e uomini sui sessanta, frammisti a qualche studente. Il maglio, il monumento dedicato a suo figlio, stava per diventare ufficialmente patrimonio del comune di Milano. Era il punto d’arrivo di una lotta di quarant’anni. Iniziata il 23 gennaio notte del 1973. Quando Roberto Franceschi venne colpito alla nuca da un proiettile sparato da un agente di polizia. Una tragedia insensata. Gli studenti che convocano un’assemblea serale aperta in università. Il rettore che la vieta: gli estranei non entrano. Nel paese, nel nuovo governo di centrodestra c’è voglia di andare alla resa dei conti con il movimento studentesco milanese. Il III Celere presidia, gli studenti attaccano, la polizia spara, spara anche personale in borghese sugli studenti in fuga. Un operaio ferito, e Roberto, studente bocconiano, pure. Solo che Roberto muore dopo una settimana di coma. E a Lydia, attivissima preside di scuola media, cambia la vita. La consacra alla memoria del figlio, studente modello, libretto pieno di trenta e il sogno militante del socialismo in terra.
La battaglia per la verità, le menzogne tipiche di questi processi (il suo durerà ventisei anni), la memoria di Roberto che diventa simbolo del movimento con una canzone di lotta che affascinò anche Giorgio Bocca. E negli anni la voglia sempre più grande di non consentire che l’oblio seppellisca tutto. Gli stessi compagni di Roberto ogni tanto non capiscono, lei si consuma al pensiero che nessuno di loro abbia avuto il coraggio di testimoniare al processo. Alcuni di loro si chiedono se “la Franceschi” non stia andando sopra le righe. Che ne sanno mai loro di che cosa sia perdere un figlio, che cosa voglia dire fingere che possa tornare e tenere la sua stanza esattamente com’era quando lui ne uscì l’ultima volta?
Lydia, bionda e con il sorriso dolcissimo che sa mutarsi in frusta in un secondo, trasforma il 23 gennaio in un rito civile milanese. Il primo, il secondo, il terzo anniversario, il decimo, il ventesimo. E i ragazzi crescono, e fanno famiglia e vanno in giro per il mondo. Lei ogni 23 gennaio li riporta a quella sera lontana. All’inizio ci vanno per Roberto. Poi per Roberto e per Lydia, la donna che non si arrende e che li ama, e davanti alle cui ragioni alla fine si inchina anche la Bocconi. Si chiedono, i ragazzi diventati adulti, che cosa potrà immaginare Lydia per l’anno prossimo, perché ha ormai inventato di tutto. E lei inventa: con Cristina, la figlia; con Mario, il marito. Non più solo la memoria, non più solo il processo e le sue bugie. Ma le ingiustizie del mondo, perché quelle Roberto voleva combattere. Economisti, sociologi, avvocati, attori, giornalisti, familiari di altre vittime, testimoni del volontariato. E spettacoli, e la Costituzione, e la musica, in un turbinio di formule e di interlocutori.
Poi nel ’96 l’idea di lasciare qualcosa che possa oltrepassare non solo la vita di Roberto ma anche la sua: una fondazione, la fondazione Franceschi. In cui mette tutto il risarcimento finale del processo e che per anni ha premiato le migliori tesi bocconiane sul sottosviluppo, sulle disuguaglianze, sull’occupazione, sulla sostenibilità. E che ora ha istituito borse di studio che si apriranno agli studenti di tutte le università. Bisogna vederla quando i premiati raccontano la materia di cui si sono occupati, quando lei sente l’orgoglio che su quelle tesi vegli Roberto, che di quelle materie avrebbe voluto e non poté occuparsi. Ma l’orgoglio più grande l’ha forse provato l’altra sera, in cui anche il nuovo rettore della Bocconi ha voluto renderle omaggio. Quando ha preso la parola una studentessa bocconiana, Irene, calabrese. Un discorso teso, commosso. Idealmente rivolto agli studenti venuti da fuori a contestare la Bocconi come tempio del capitale, dei tecnici che tagliano posti di lavoro, palestra per studenti privilegiati. L’avrebbero dovuto sentire in tanti quel discorso. Noi studenti bocconiani che “non balliamo sulla crisi”, noi che pensiamo criticamente, noi che guardiamo ai più deboli, noi siamo la Bocconi di Franceschi, la nostra università ha questa storia dentro la sua storia, come si fa a dimenticarlo? Roberto che da solo pareggia agli occhi della ventenne di oggi il peso dei ministri bocconiani e della loro fama: quale riconoscimento più grande? Lydia ringraziava i sessantenni, e nell’abbraccio c’era la forza soprannaturale di una madre che con gli occhi che guardano avanti, ma con il cuore inchiodato al luogo in cui c’è il maglio immenso, ha fatto del figlio un simbolo. “Oggi guardo Roberto”, ha scritto in un foglio che ha voluto consegnare prima dello spettacolo teatrale, “mi sento in sintonia con Lui e in pace con me stessa”. Come i giusti.
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