Manos Matsaganis: dalla Grecia lezioni su crisi e disoccupazione

Probabilmente il caso greco è troppo unico perché si possano trarre lezioni utili per altri paesi. Osservazione sulle lezioni greche (lezioni su cosa non fare) interessanti nel contesto italiano ed europeo.

di
Manos Matsaganis
Athens University of Economics and Business

Non so quanto rilevante possa essere l’intervento di un economista che viene da un paese disastrato, dove sia la disoccupazione sia la precarietà sono arrivate a livelli mai visti prima (i più alti in Europa), e tuttavia continuano a crescere. Probabilmente il caso greco è troppo unico perché si possano trarre lezioni utili per altri paesi. Detto ciò, mi limiterò a qualche osservazione sulle lezioni greche (lezioni su cosa non fare) che spero possa essere interessante nel contesto italiano ed europeo.

1.
La prima osservazione riguarda l’importanza di una rete di ammortizzatori sociali capaci di impedire la trasformazione di una crisi economica in un’ emergenza sociale. E’ pur vero che una crisi delle dimensioni di quella greca (col Pil ridotto di circa un quarto nel giro di cinque anni) avrebbe messo a dura prova qualsiasi sistema di welfare, anche quelli più avanzati. Ma l’ andamento della povertà non è mai semplicemente in funzione alla congiuntura economica. Come è stato giustamente detto, code lunghe di disoccupati sono la ragione d’essere (the core business) dello stato sociale. Solo che nel caso greco, una risposta adeguata alla domanda di protezione non è mai arrivata. Gli ammortizzatori sociali hanno ammortizzato ben poco.
Per farne solo un esempio. Nel 2014 il numero dei disoccupati in Grecia arrivò a 1 millione 270 mila, cioè il doppio di quello del 2010 (624 mila). Allo stesso tempo il numero di chi riesce ad ottenere l’indennità di disoccupazione si è dimezzato (da 224 mila nel 2010 a 118 mila nel 2014). In seguito, il tasso di copertura è passato dal 36% nel 2010 al 9% nel 2014. Se si pensa che la Grecia è uno dei pochi paesi europei sprovvisti di un programma di reddito minimo, si può capire subito quanto è breve il passo dalla perdita del posto di lavoro alla caduta (spesso di una intera famiglia) nella povertà più assoluta. La nostra rete di sicurezza è poco sicura, perchè piena di buchi.
La rilevanza di questa lezione per l’Italia mi pare ovvia. Ammetto subito che la mia lettura degli ultimi sviluppi in materia nell’Italia è piuttosto superficiale. Ma mi sembra che i provvedimenti del Jobs Act (Nuova assicurazione sociale per l’occupazione, indennità assicurativa riservata ai collaboratori a progetto, e assegno per la disoccupazione), a partire dal prossimo mese, possano rafforzare la rete italiana di ammortizzatori sociali, anche se ovviamente rimane ancora molto da fare.

2.
La mia seconda osservazione interessa la divisione dei compiti fra Unione europea e stati membri. Fino a pochi anni fa, la cosa sembrava chiara: principio di sussidiarietà, ergo protezione sociale compito dei governi nazionali, fine della storia. La crisi ha rivelato quanto sia difficile, se non addiritura impossibile, affrontare effettivamente l’emergenza della disoccupazione mentre ci si sforza a rispettare i vincoli fiscali. Serve una ripartizione più equilibrata di competenze (e di costi) fra governo nazionale e livello europeo, di cui un programma di indennità di disoccupazione europeo sarebbe una componente-chiave.
Inoltre, l’esperienza americana insegna i vantaggi del federalismo fiscale e di welfare come stabilizzatori automatici durante una recessione. Il sistema fiscale americano è molto più equilibrato di quello europeo (nel senso del rapporto fra Ue e stati membri), con circa 55% di tasse e spesa controllate a livello federale. Inoltre, negli ultimi anni, per affrontare la Grande Recessione, il governo federale ha aumentato la spesa (anticiclicamente), metre quelli statali l’hanno tagliata (prociclicamente). E poi gli Stati Uniti hanno a disposizione un sistema d’indennità di disoccupazione in cui il governo federale mantiene un suo contributo piuttosto cospicuo, e lo aumenta temporeanamente in tempi di crisi.
Il problema ovvio è che siamo ancora lontani da poter contare su degli strumenti del genere. Una tale ripartizione (precursore di una futura welfare union) presuppone l’esistenza di una comunità politica europea, mentre una delle tante vittime di questa crisi è il venir meno del sentirsi europei oltre che italiani o greci.

3.
La mia terza (e ultima) osservazione si riferisce al ruolo del salario minimo, un altro dei provvedimenti del Jobs Act, benchè applicabile soltanto ai settori non coperti da contrattazione collettiva. E’ vero che in teoria, se fissato a un livello eccessivo, il salario minimo può far salire la disoccupazione (o il lavoro nero, spostando posti dall’ economia formale a quella sommersa). Ma la letteratura economica dimostra che in generale gli effetti negativi dell’introduzione del salario minimo, e dei suoi eventuali aumenti, sono piuttosto limitati.
Il caso greco conferma anche l’ opposto: ridurre i salari minimi di un enorme e senza precedenti 22% (32% per i lavoratori più giovani) è servito ben poco per rilanciare la competitività e l’occupazione, mentre nel frattempo ha abbassato ulteriormente il potere d’ acquisto dei lavoratori con retribuzioni basse.
Sono dunque convinto che, se fatta con la debita attenzione, l’introduzione del salario minimo in Italia può rivelarsi uno strumento capace di tutelare meglio chi oggi non gode di tutele di questo genere, combattendo la precarietà senza troncare la creazione di nuovi posti di lavoro di cui l’ Italia come tutta Europa ha così tanto bisogno.

Manos Matsaganis insegna Economia delle politiche sociali e del lavoro presso l’Università di Economia di Atene

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