Catherine de Wenden è Dottore in Scienze Politiche presso Sciences Po; è stata consulente per diverse organizzazioni tra cui l’OCSE, la Commissione europea, l’UNHCR, il Consiglio d’Europa. Dal 2002 presiede il Comitato di Ricerca “Migrations” dell’Association Internationale de Sociologie. Avvocato e studioso di scienze politiche ha condotto sul campo ampi studi sul rapporto tra immigrazione e politica in Francia.
Durante gli ultimi trent’anni si è assistito ad una notevole accelerazione dei fenomeni migratori; dai 77 milioni di migranti internazionali del 1975 si è passati infatti ai circa 214 milioni di oggi. Considerando inoltre che nel mondo si contano circa 740 milioni di migrazioni all’interno di uno stesso paese, possiamo dire che oggi ci siano quasi un miliardo di persone in movimento.
Il fenomeno non si esaurisce nelle più conosciute e studiate migrazioni dal Sud al Nord del mondo, ma ha un’ampiezza globale, con flussi Sud-Sud, Nord-Nord, Nord-Sud e Est-Ovest, che fanno si che quasi tutte le regioni mondiali siano interessate dalla partenza, dal transito o dall’accoglienza dei migranti.
Le cause che hanno portato all’esplosione del fenomeno sono diverse: il minore costo dei trasporti, le crisi politiche che generano profughi e rifugiati, basse aspettative di vita nei paesi di origine, le crisi ambientali etc..
Il numero di profughi è aumentato vertiginosamente dal 1990 a causa della concomitanza di numerosi conflitti; le regioni maggiormente interessate sono l’Afghanistan, l’Iraq, il Libano, l’Ex Yugoslavia, la Cecenia e la regione dei grandi laghi in Africa. L’Europa è stata la principale destinazione di questi migranti, seguita da Stati Uniti e Canada. A causa di una politica di accoglienza sempre più restrittiva messa in atto dai paesi Europei solo il 20% di questi immigrati si è però visto riconosciuto lo status di profugo.
L’Europa è comunque diventata negli ultimi trent’anni la meta principale delle immigrazioni internazionali; questo dato è spiegato con la sua prossimità geografica, storica e culturale con la riva sud del Mediterraneo, i legami migratori costruiti dalle migrazioni precedenti e dalla presenza dei mass media europei nelle regioni di emigrazione. L’Europa, fortemente colpita dall’invecchiamento della popolazione, ha bisogno sia dal punto di vista economico che demografico dei flussi migratori e la sua politica oscilla pertanto tra l’apertura delle frontiere, in particolare per gli immigrati più istruiti e capaci, e la chiusura per i meno qualificati, spesso ridotti alla condizione di clandestini.
Le migrazioni Nord-Sud sono apparse recentemente e consistono nel trasferimento duraturo o definitivo di cittadini da paesi del Nord a paesi del Sud dove la vita è meno costosa e il clima è più mite; in Europa il fenomeno interessa Spagna, Italia, Grecia, Bulgaria, Marocco e Tunisia, mentre i Caraibi e il Golfo del Messico svolgono la stessa funzione per i paesi Nord Americani.
Le migrazioni Sud-Sud hanno un volume quasi pari a quello delle migrazioni Sud-Nord, ma sono meno conosciute e studiate; i principali paesi d’attrazione sono quelli del Golfo, che hanno un cronico bisogno di manodopera che gli viene fornita sia da paesi di cultura musulmana come Egitto, Pakistan, paesi del Corno d’Africa, sia da altri come India e Filippine.
Uno dei fenomeni più rilevanti delle migrazioni sui paesi d’origine è costituito dalle rimesse degli immigrati che nel 2008 hanno raggiunto i 328 miliardi di dollari, il triplo dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Questi trasferimenti contribuiscono allo sviluppo delle famiglie rimaste nei paesi di origine, alle quali offrono un maggior benessere ed un’assicurazione di fronte a guerre civili, crisi politiche, disoccupazione, malattie, desertificazione e catastrofi naturali.
Per quanto riguarda il Nord America, negli stati Uniti ci sono 38 milioni di persone che non sono nate nel paese e che sono in prevalenza originari del Sud America; queste persone contribuiscono notevolmente all’economia americana, in particolare nell’agricoltura, nelle costruzioni, nei servizi e in altri lavori poco qualificati. Tuttavia gli Stati Uniti attraggono ancora lavoratori molto qualificati nei settori a più alta intensità tecnologica e nelle Università, il cui numero è fissato ogni anno dal Congresso, e ultimamente pari a 750’000 unità.
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