Abstract
In un modello di welfare “lavoristico-assicurativo” come quello italiano in cui gli schemi di protezione sociale sono connessi al lavoro e ad una divisione dei ruoli di genere che vede il maschio adulto come breadwinner, la principale conseguenza negativa della disoccupazione riguarda, come è ovvio, l’impoverimento delle famiglie. Da una recente ricerca realizzata dal Dipartimento di Studi Sociali e Politici dell’Università degli Studi di Milano (“L’impatto della recessione sulla società lombarda: la perdita del lavoro e le sue conseguenze”, promossa dalla Fondazione Cariplo e coordinata dai Proff. Ambrosini e Pedersini) emergono dati interessanti su questo tema.
Nel corso della ricerca sono state intervistate 994 persone che avevano iniziato a lavorare prima del 2007 e che, nel periodo che va da dicembre 2008 a settembre 2010, si sono rivolte ad un Centro per l’Impiego (CPI) in provincia di Milano, Lecco, Pavia, Como, Varese, Monza e Brianza, Lecco dichiarandosi disoccupate, in mobilità o in cassa integrazione . Gli intervistati iscritti ad un CPI del comune di Milano sono 385: rispetto al campione lombardo sono mediamente più istruiti, più anziani e hanno vissuto un periodo più breve di disoccupazione.
La ricerca tocca diversi aspetti, ma in questa sede sono quattro i punti che è importante rimarcare perché rendono conto di come durante la crisi economica sia andata ampliandosi e diversificandosi l’area del disagio, anche in un contesto ricco e vicino alla piena occupazione come quello lombardo.
Il primo punto riguarda l’estrema varietà delle conseguenze della perdita del lavoro sui bilanci familiari. Poiché non sempre vi è corrispondenza tra effettiva riduzione della capacità d’acquisto delle famiglie e percezione della gravità della situazione, abbiamo costruito una tipologia di famiglie che combina un indicatore oggettivo (la capacità della famiglia dell’intervistato di far fronte autonomamente ad una spesa imprevista di 800 euro) con uno soggettivo (il livello di difficoltà dichiarato nell’arrivare alla fine del mese). La tipologia così costruita si compone di quattro tipi di famiglie, diversificate in base alla gravità della propria situazione economica: in equilibrio (pari a solo il 17% del campione), a rischio (16%), in difficoltà (25%), in grave difficoltà (42%). Questi dati ci dicono che la stragrande maggioranza di chi ha perso il lavoro durante la crisi economica appartiene ad una famiglia che manifesta un disagio economica, più o meno grave. Le famiglie più vulnerabili (e questo dato è in linea con le ricerche sulla povertà e l’esclusione sociale) sono quelle monoreddito in cui il capofamiglia ha perso il lavoro, le giovani coppie con figli piccoli, le famiglie numerose e i nuclei monogenitoriali. Anche altri fattori si associano ad un maggior rischio di caduta in una situazione di grave difficoltà economica: l’essere di cittadinanza non italiana, un basso titolo di studio, avere un divorzio alle spalle oppure essere dei giovani fuoriusciti dalla famiglia di origine.
Questo mix di fattori individuali e sociali che concorrono all’ampliarsi dell’area del rischio di povertà ci porta al secondo punto che vale la pena sottolineare. Per “sopravvivere” alla crisi economica, risultano sempre più importanti le dotazioni di risorse individuali e sociali su cui chi ha perso il lavoro può contare. Il che implica che le disuguaglianze sociali di partenza siano destinate, non solo a riprodursi, ma anche a rinforzarsi con la crisi economica. L’amplificarsi dell’importanza delle risorse individuali è dovuto anche all’insufficienza degli schemi di protezione sociale di fronte ad una crisi di lungo periodo. Le famiglie a maggior rischio di povertà sono, infatti, proprio quelle degli intervistati che nei due anni presi in considerazione sono stati per più tempo senza lavoro (11 mesi in media rispetto ai 5 mesi di chi ha un bilancio familiare in equilibrio). Ma se guardiamo all’utilizzo degli ammortizzatori sociali disponibili, vediamo che non ci sono differenze tra i diversi tipi di famiglia: gli intervistati appartenenti alle famiglie “in grave difficoltà” hanno, in media, avuto accesso in egual misura alla cassa integrazione o all’indennità di disoccupazione. Questi strumenti si sono però rivelati insufficienti, perché differente è la gravità dello stato di bisogno di chi ha accumulato nella propria biografia anche altri fattori di rischio, oltre a quello connesso alla perdita dell’occupazione.
Ed arriviamo qui al terzo punto di attenzione. Utilizzare la distinzione tra occupato e disoccupato per descrivere il mercato del lavoro in Lombardia durante la crisi economica può essere fuorviante. La fotografia degli intervistati presa in momenti temporali diversi – quello dell’iscrizione al CPI e quello dell’intervista – conferma quel dinamismo che l’analisi dei flussi del mercato del lavoro della regione Lombardia ha continuato a registrare anche durante la “crisi” (ARIFL-CRISP, 2009, 2009, 2010). In effetti al momento dell’intervista risulta occupato circa un terzo delle persone che tra il dicembre 2008 e il settembre 2010 si erano iscritte nelle liste di un CPI dichiarandosi disoccupate (32,2%) o in mobilità (36,1%). Il rientro nel mercato del lavoro, però, si è tradotto in un peggioramento delle tutele contrattuali. Particolarmente critica la condizione degli over 45: sebbene provengano in genere da situazioni lavorative stabili e tutelate, una volta espulsi dal mercato del lavoro, faticano più degli altri a rientravi. Nei due anni precedenti l’intervista i lavoratori con più di 45 anni, sono stati disoccupati per ben 10,7 mesi rispetto agli 8 mesi dei colleghi più giovani. L’uscita dalla “cittadella dei garantiti” si associa ad una sorta di sostituzione del lavoro dipendente a tempo indeterminato con contratti di lavoro atipici: un quinto della forza lavoro “adulta” (35-45 anni) e di quella “anziana” (over 45) ha vissuto con la crisi economica un arretramento nella propria stabilità lavorativa, passando da insider (occupati a tempo indeterminato) a outsider (lavoratori privi delle tradizionali protezioni).
Dato che la perdita del lavoro si inserisce in un processo dinamico, con un forte intreccio tra occupazione, inoccupazione e disoccupazione, non stupisce che le azioni messe in atto dalle famiglie per far fronte alla riduzione del reddito siano di frequente adattive e contingenti, più che strategiche e orientate al futuro. E’ questo l’ultimo punto sul quale voglio soffermarmi: come hanno reagito le famiglie milanesi e lombarde alla crisi economica?
Le modifiche degli stili di consumo sono evidenti: la stragrande maggioranza del campione (più di 7 su 10) afferma che nei due anni successivi alla crisi si è impegnata a ridurre le spese per l’abbigliamento, i viaggi e il tempo libero. Poco meno (da 5 a 6 su 10) afferma di aver ridotto le spese per i generi alimentari, i trasporti e la casa. Una quota minoritaria (2 su 10), ma importante visto il tema, ha limitato le spese sanitarie. Le differenze in base alla situazione economica familiare sono decisamente marcate, con ai due poli le famiglie “in grave difficoltà” (dove le rinunce riguardano la maggioranza delle famiglie e tutti gli ambiti di consumo) e quelle “in equilibrio” (dove stili di vita più parsimoniosi si sono realizzati, ma riguardano una minoranza delle famiglie e per lo più attengono ai bisogni non primari). Tale fotografia si aggrava se consideriamo che le famiglie “in grave difficoltà” risultano anche sommerse dai debiti: più di metà ha saltato più di una volta la rata del mutuo o dell’affitto e circa un terzo non ha pagato le bollette, le spese condominiali e le rate del finanziamenti contratti per l’acquisto di beni di consumo. Sono diverse le famiglie che hanno dovuto ricorrere ad un prestito, sia da canali formali (banche, finanziarie, istituzioni) che informali (familiari e conoscenti). Le famiglie più esposte all’indebitamento sono quelle “in grave difficoltà”: il 54,7% ha contratto dei debiti con almeno uno dei soggetti indicati rispetto al 18% di quelle “in equilibrio”. Il ricorso al prestito non sembra essere utilizzato dalle famiglie come una soluzione per mantenere lo stesso stile di vita a fronte di una riduzione delle risorse economiche familiari. Anzi, se guardiamo al livello di difficoltà incontrato dalle famiglie per arrivare a fine mese/gestire le spese impreviste, si evidenzia una sorta di traiettoria, da una situazione di equilibrio all’interno al bilancio familiare – dove si riesce a mantenere pressoché inalterato il proprio stile di vita senza aver bisogno di ricorrere a prestiti – ad una esplosiva propria delle famiglie “in grave difficoltà” in cui modifiche agli stili di vita e ricorso al debito si rinforzano l’uno l’altro.
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